Salute e malattie

Le pagine di Rabito

E per non prentere la febre si doveva bere vino e mettere caucina


La febbre spagnola, Chiaramonte, Estate 1918  (pp. 94-98 )

Così, quella sera che io sono arrevato a casa, io aveva una fame di un lupo, e mia madre subito se n’antò a cercarza uova nelli vecine. E così, mi ha fritto 4 uova. Il pane l’avevino fatto fresco, il vino ce n’era tanto perché c’era la febre spagnuola e ci voleva vino per non ci venire la febre. E mio fratello Ciovanni e Vito, per cercare vino buono, erino brave molto. E per non prentere la febre si doveva bere vino e mettere caucina squagliata con l’acqua davante la porta, per ammazare a tutte l’inzerte. E il mio fratello Ciovanni per questolavoro era ottimo. Ma il mio fratello, delle inzerte, non zi faceva muzicare, perché fomava e beveva vino.

(…) E poi il mio fratello mi ha detto: – Ora ti ne vaie adormire, e poi deve stare atente che qui a Chiaramonte, con la spagnola, ni moreno magare 20 o 24 al ciorno. Tu ti deve stare nascosto come ti faie fermare la licenza, perché qui il maresciallo ave l’ordene che tutte li soldate che vencono allicenza, che li vedevino li carrabiniere in ciro, per 3 ore al ciorno dovevino antare a cimetero per fare fosse per muorte. Così io disse: «Che bella cuoppila di mincia, che venne qui per fare lo bechino!» E così, mi ha fatto 10 ore di dormire, e poi venne mia madre a sbegliareme.

(…)Così, mi sono alzato e subito mi ne antaie nel maresciallo per fareme fermare la licenza, e il maresciallo me ha detto: – Rabito, qui c’ene l’ordene che li militare che vencono illicenza, per 3 ore al ciorno, devono antare al cimitero per fare fosse per i morte, perché non ci sono uomine, e quinte tu deve fare tre ore magare. (…) Responto io a colpo, perché era stato avisato di Ciovanni, e ci ho detto: – Signore maresciallo, che per domane io non ci posso antare perché subito subito devo antare amMezzarrone, che quella poveretta di mia madre sta spetanno propiamme per ventegnarlla10, perché ci doveva antare il mio fratello Ciovanni, che ci ave li stampelle e non ci pole antare, e quente, se non vado io a coglire questa racina, si perde tutta. E il maresciallo ci ha scritto la licenza e mi ha detto: – Va bene, poi mi porteraie umpoco di uva di tavola. E poi il maresciallo mi ha detto: – Tu seie Rabito, il figlio di quella signora che il recemento ci ammantato lire 150 di premio per i fatte di querra? – E io ci ho detto che era propia io, e il maresciallo m’ha detto: – Vatene e non ti fare vedere dai carabiniere. E così, mi ne sono antato con il permesso del maresciallo, che lo hanno inteso magare altre carabiniere che erino dentra alla caserma. E io pare che aveva preso il terno. Ma però penzava che ci aveva a portare l’uva. Ma poi, alla sera, mi ammantato a chiamare propia per direme di non portare l’uva, perché come li suoi figli vedevino l’uva si la manciavino, che la febre spagnola c’era questa maledetta spagnula, e lui teneva paura che ci morevino.Che erino propia li frutte che hanno fatto venire questa spagnola. E così non antaie a fare fossa.

Io, per natura, stava sempre arrabiato, perché li solde, quelle che avevino dato a mia madre, non ci n’erino più. Così, io voleva fare solde. Poi, domandaie a mio fratello Vito, e ci ho detto: – Ma tu dove vaie a travagliare? – E mi ha detto: – Mi ne sto antanto a Vettoria – Perché per racoglire l’uva si quadagnava 25 lire al ciorno, perché non c’erino uomine a racoglira, perché tutte li uommine erino soldate. C’erino li sole femmene che potevino racoglire questa uva, ma la spagnola faceva morire alle donne, propia quelle che bavevino di 18 a 30 anne. Così, ammio fratello Vito, ci ho detto che ci antava magare io, perché io, sentento lire 25 al ciorno di quadagno, impazie e disse: «Di la spagnola non tenco paura».

(…) E poi, gli altri giorni, io doveva stare dentra come uno recercato, per non mi fare vedire dai carabiniere che era inciro. Ma li ulteme 3 ciorne mi ha vestuto di coraggio e, caminanto, queste ultime 3 ciorne, mi sono acorto che a Chiaramonte con la spagnola ni morevino più di 20 al ciorno: li carrecavino con li carrette, e poi la cascia ci la facevino con 4 pezzi di tavola qualunquie, bastiche li portavino al cimetero. Perché li muorte nelli famiglie, come morevino, subito li quardie stavino pronte, e li carabiniere ci li facevino portare subito al cimitero, perché con la puzza facevino morire a quelle vive. E quelle che non avevino parente ci le portava il comune, a spese del comune. E poi il comune ci sventeva quello che il morto lasciava, e così il comune si pagava con la propietà che il morto aveva. Poi, a Chiaramonte, c’ereno 40 pricioniere austrieche, che li tenevino per fare pulizia nelle strade del paese, e magare vurrecavino muorte.

Io mi cominciaie a sentireme male per causa alla stretta amicizia che aveva con queste putane


Malattie veneree, Catania 1921 (pp. 155-157)

Perché io, tanto forbo mi senteva, arevanno a donne, tanto cretino mi faceva, che mi lasciava comantare di questa dopia putana, come volevino mamma e figlia.

E così, io non mi ho fatto capace a chi aveva a volere più bene di tutte 2 donne che mi facevino contente amme: una era quella della pensione dove mi corcava e l’altra era questa che lavorava comme, che aveva questa figlia che si stapeva imparanto salta. Passanto 2 mese, io mi cominciaie a sentireme male per causa alla stretta amicizia che aveva con queste putane, sia con questa che aveva la figlia femmina saltina e sia con quella donna dove mi corcava alla sera. E cominciava a camminare zuoppo, perché mi facevino male li coglione, senza sapere che diavilo io aveva. Mi avevino uscito 2 froncole immienzo alle campe. Più va, più assaie mi facevino male, ma non le voleva dire annesuno dai 2 putane donne. Perché, se lo diceva a quella dove mi corcava: «Vedete cosa haio?», e mi potevino dire: «Mascerato, disonesto, questa maletia di donna dove l’haie preso? al casino?», e mi poteva dire che io l’aveva rovenata. E se lo diceva a quella che lavorava comme: «Vede che cosa haio?», mi poteva dire lo stesso: «Maleducato, ti seie rovenato». Mentre io ci doveva sparare a tutte 2, perché forse che tutte 2 erino impestate e hanno rovenato amme, che io aveva 22 anne, e magare che ni aveva 23, sempre era caruso, e la sua malattia mi l’hanno dato amme, così loro si hanno polito li sanquie e io mi l’ho sporcato. E così, io lo sapeva che questa maletia si chiamavino «bombona».

Dire, non ci lo poteva, sia all’una e sia a l’altra, che mi avevino rovenato, perché mi potevino denonziare. Quinte, mi conveneva di antare nel signore Nicodra, fareme fare la paga, e antare a cercare un dottore e fareme curare.

E così, ni ho trovato uno che, quanto ci sono domantato all’infermiere, subito volle una lira per potere aspetare al dottore. E finarmente doppo 2 ore ha venuto il dottore e, come mi ha vesetato, mi ha detto: – Queste bummuna vogliono essere tagliate per forza, ma allo spitale qui a Catania non ti conviene, perché sicuro che ti costerà lire 500, ma, se te ne vaie a Chiaramonte, questa operazione ti la puoie fare. Io ci aveva detto: – Dottore, che ci vorrebbe per farle scattare? – E il dottore mi ha detto che: – La vera mirecina ene, per queste, il cortello, che, una volta tagliate, non escino più.

Così, io aveva una rabbia che mi stapeva mettento a piangere, che per forza volevino essere tagliate, e io diceva: «Come, nella querra non mi avevino maie tagliato e ura, de borchese, per forza ci vole il cortello?» E diceva: «Come sono sportenato, che io da Chiaramonte aveva scapato per pazzo, perché non aveva lavoro, e ora aveva trovatto il lavoro e lo dovette lasciare, e magare malato di una malatia di butana!»

(…) Io sapeva che il dottore Cutello era lauriato di poche ciorne ed era il megliore dottore di tutte quelle altre dottore, che forse aveva 2, 3 ciorne che aveva venuto a Chiaramonte, e ancora lo studio non zi l’aveva aperto. Ma, però, io penzava che, se lo chiamava io, sicuro che ci veneva, perché il dottore Cotello mi voleva troppo bene. Io, con questo dottore, ci era amico di piceriddo.

E così, mi ha detto: – Avante Vincenzo, tu sei il primo mio chiliente –. Era tutto resolente, e rideva, e tutto si arrecriava. E mi ha detto: – Vincenzo, chi haie? Che fa? Haie capitato qualche buono raloggino catanese? E mi lo ficuro che potesse essere la tua bella malatia… – Lui redeva e io bestimiava. Perciò, mi ha detto, il bravo dottore, che domane, alle ore 8, prenteva la borsa con l’atrezze di dottore belle nuove nuove: – Senza che nesuno malato l’aveva doperato prima di te… E venco sicuro. Che con uno picolo taglio, caro Vincenzo, tutto va bene, e in 7, otto ciorne ti ne puoi antare a travagliare a Catania, e puoi portare un altro bello recalo… – Lui si deverteva a babiare e io bastimiava, e dalla rabbia mi muzecava li mane, non per il dolore che doveva sentre, ma per la vercogna che io senteva.

Testi tratti da Antologia di Terra Matta