La prima guerra mondiale

Le pagine di Rabito

Fanatice soldate


Assalto a Montefiore, settembre 1917. (pp.53-54)

Così, quella mattina, hanno venuto queste fanatice soldate, senza portare né zaino e coperte e né niente, neanche manciare, solo una ciacca che di dietro alle spalle c’era una crante tasca, la riempevino di bombe, il pugnale nella bocca e il moschetto con la baionetta incastatae partevino come tante cane arrabiate. E poi, prima che partevino, si bevevino mezzo litro di licuore, e magare se umpriagavino. Manciavino bene, la moseca avevino, una bamdiera italiana portavino, e partievino con tutto il coraggio che avevino.
E quella matina, verso le ore 5, hanno dato la salto alla fortezza di Monte Fiore all’improviso, butanto bombe in quelle trencieie come li diavole, che hanno fatto una carnificina; li artigliarie che sparavino, sia li nostre e chelle suoi, che il Monte Fiore era deventato una vampa. E così, alle ore 10, Monte Fiore era un’altra volta italiano.
E compuro che c’era la nebia si vedeva che il monte era rosso. E tanto romore che se senteva di bombe e di cannonate, e poi che li cride e il pianto si senteva di dove era io e il calabrise. E la terra tutta tremava, e io e Ciampietro tremammo come tremava la terra, perché avemmo troppo paura.
Amme mi pareva una festa, a quardare quel monte, perché aveva visto tante fuoche alte uficiale. Ma Ciampietro, che ci aveva stato nelli bataglie, si vedeva che ci stavino scapando li lacrime, perché sapeva che, quanto li Ardite prentevino quel monte, poi tocava annoi antarece e starece per adefenterlo, perché le vero quaie erono doppo conquistato.
Che poi li Ardite – quelle che restavino vive – si n’antavino, e noi dovemmo stare lì, a non ni lo fare levare un’altra volta, perché li austriace facevino la contra afenziva e noi la dovemmo reparare.

Ci sono 2 Patre Eterne


Natale in trincea, 1917. (p.58)

Recordo poi che era propia il ciorno di Natale, e propia quella notata si aveva presentato alle nostre posezione un soldato austrieco che parlava italiano, e forse era di Trieste, e disse che si voleva rentere come pricioniere, e così la sentenella non ci ha sparato. E io lo teneva in consegna. Propia quella ciornata era di dominica e il prete ci ha portato sotto li albere per farene sentire la messa, come tante domeniche. E così, ci ha venuto il pricioniere pure, alla messa.
Così, quanto il prete aveva fenito di dire la messa, e come tante volte repeteva che il Dio ni doveva dare la crazia di vincere questa sanquinosa querra e scacciare il nostro potente nimico, che come il pricioniere intese quella parola del prete, che «il Dio ni doveva fare la crazia di scacciare il propotente nimico», si ammesso a ridere e senza tremare ha detto: – Qualda che sono tutte li stesse li prete, che la domenica passata il nostro prete ci ha detto, quanto ci hanno portato alla messa, ci ha detto propia li stesse parole, che il Dio ci aveva a fare una crazia, che l’Austria doveva «scacciare il suo potente nemico», che ene l’Italia, e «vincere questa sanquinosa querra»… – E il triestino redeva, e non sapiammo perché redeva e ni pareva che era pazzo, e poi ni ha detto perché rideva e ha detto che forse ci sono 2 Patre Eterne, uno è in Italia, e uno ene in Austria, e non ci capeva niennte, e rideva e fece redere a tutte, che il prete si aveva compiato li coglione e ni ha detto: – Che ci l’ha portato a questo che va contra la relicione? Portatolo fuore della messa!
Così, io mi ne sono antato, perché il prete si aveva innervosito. E poi lo hanno portato al campo di concentramento, ma era uno che diceva la veretà.

Doveva servire propia per quelle soldate lebetesose, che senza donna non ci potevino stare


I casini di guerra, Valbella, maggio-giugno 1918 (pp. 73-74)

Così, il comanto di bricata penzareno di aprire un casino per asfamare a tutte queste soldate, che erino prezzo fisse militare. E così, sono antate a prentere 20 ragazze di mistiero propia butane, propia di un casino di Bologna o di Milano, che io non recordo bene di dove sono venute, e doveva servire propia per quelle soldate lebetesose, che senza donna non ci potevino stare, che cuanto vedevino donne erino come tante cane. […] Però, queste donne, prima che siano messo in servizio, ci hanno passato una visita meglio di quella che passeno ai soldate quanto deveno partire per fare il soldato, per verificare di essere di sana e robusta costutuzione, perché avevino a sfamare 6.000 soldate.
In quello picolo paese c’era un convento che c’erono tante picole stanze e uno corretoio e 2 entrate c’erino. Poi, di una entrata ci hanno messo 3 soldate e uno caporale come se avesse stato una porta di caserma, c’era una stanzetta con 2 infermiere e tutte li medicenale che c’erino di bisogno, che così d’ogni soldato che entrava in questo casino doveva essere desempetato, e un sotta tenente midico c’era, di maniera che d’ogni soldato che entrava, se era malato di malatia di donne, non lo facevino entrare.
Così, una volta dentra, si n’antava nel corretoio che c’erono tutte belle esposte li fatografici di queste putane, e quanto ci faceva sempatia una, lo decevino alla patrona della casa e ci dava lire 0.50 centesime e la marchetta, che lì, chi entrava, non doveva entrare per babiare, ma doveva entrare per pagare, se voleva fare cosa. Così, questo soldato, con questa marchetta, si n’antava al numero ichese, dove c’era la ragazza da lui scerta, e l’antava a trovare nel numero dove era esposta. Così, in 2 minute, quello soldato faceva tutto e subito doveva uscire fuora di quella ragazza, che c’era l’altro soldato fuore che spetava. Così, questo soldato uscieva dell’altra entrada, che c’era lo stesso servizio di dove aveva entrado, che c’era la visita passata, e veniva desompetato e via. E così, non c’era pericolo che li soldate cascavino ammalate. E così, tutte noi soldate, tutte 6.000, queste 20 belle donne ci hanno sodisfatto a tutte, che queste belle donne erino capace di farese più di 80 marchette per uno a ciorno

E per non prentere la febre si doveva bere vino e mettere caucina


La febbre spagnola, Chiaramonte, Estate 1918 (pp. 94-98 )

Così, quella sera che io sono arrevato a casa, io aveva una fame di un lupo, e mia madre subito se n’antò a cercarza uova nelli vecine. E così, mi ha fritto 4 uova. Il pane l’avevino fatto fresco, il vino ce n’era tanto perché c’era la febre spagnuola e ci voleva vino per non ci venire la febre. E mio fratello Ciovanni e Vito, per cercare vino buono, erino brave molto. E per non prentere la febre si doveva bere vino e mettere caucina squagliata con l’acqua davante la porta, per ammazare a tutte l’inzerte. E il mio fratello Ciovanni per questolavoro era ottimo. Ma il mio fratello, delle inzerte, non zi faceva muzicare, perché fomava e beveva vino.

(…) E poi il mio fratello mi ha detto: – Ora ti ne vaie adormire, e poi deve stare atente che qui a Chiaramonte, con la spagnola, ni moreno magare 20 o 24 al ciorno. Tu ti deve stare nascosto come ti faie fermare la licenza, perché qui il maresciallo ave l’ordene che tutte li soldate che vencono allicenza, che li vedevino li carrabiniere in ciro, per 3 ore al ciorno dovevino antare a cimetero per fare fosse per muorte. Così io disse: «Che bella cuoppila di mincia, che venne qui per fare lo bechino!» E così, mi ha fatto 10 ore di dormire, e poi venne mia madre a sbegliareme.

(…)Così, mi sono alzato e subito mi ne antaie nel maresciallo per fareme fermare la licenza, e il maresciallo me ha detto: – Rabito, qui c’ene l’ordene che li militare che vencono illicenza, per 3 ore al ciorno, devono antare al cimitero per fare fosse per i morte, perché non ci sono uomine, e quinte tu deve fare tre ore magare. (…) Responto io a colpo, perché era stato avisato di Ciovanni, e ci ho detto: – Signore maresciallo, che per domane io non ci posso antare perché subito subito devo antare amMezzarrone, che quella poveretta di mia madre sta spetanno propiamme per ventegnarlla10, perché ci doveva antare il mio fratello Ciovanni, che ci ave li stampelle e non ci pole antare, e quente, se non vado io a coglire questa racina, si perde tutta. E il maresciallo ci ha scritto la licenza e mi ha detto: – Va bene, poi mi porteraie umpoco di uva di tavola. E poi il maresciallo mi ha detto: – Tu seie Rabito, il figlio di quella signora che il recemento ci ammantato lire 150 di premio per i fatte di querra? – E io ci ho detto che era propia io, e il maresciallo m’ha detto: – Vatene e non ti fare vedere dai carabiniere. E così, mi ne sono antato con il permesso del maresciallo, che lo hanno inteso magare altre carabiniere che erino dentra alla caserma. E io pare che aveva preso il terno. Ma però penzava che ci aveva a portare l’uva. Ma poi, alla sera, mi ammantato a chiamare propia per direme di non portare l’uva, perché come li suoi figli vedevino l’uva si la manciavino, che la febre spagnola c’era questa maledetta spagnula, e lui teneva paura che ci morevino.Che erino propia li frutte che hanno fatto venire questa spagnola. E così non antaie a fare fossa.

Io, per natura, stava sempre arrabiato, perché li solde, quelle che avevino dato a mia madre, non ci n’erino più. Così, io voleva fare solde. Poi, domandaie a mio fratello Vito, e ci ho detto: – Ma tu dove vaie a travagliare? – E mi ha detto: – Mi ne sto antanto a Vettoria – Perché per racoglire l’uva si quadagnava 25 lire al ciorno, perché non c’erino uomine a racoglira, perché tutte li uommine erino soldate. C’erino li sole femmene che potevino racoglire questa uva, ma la spagnola faceva morire alle donne, propia quelle che bavevino di 18 a 30 anne. Così, ammio fratello Vito, ci ho detto che ci antava magare io, perché io, sentento lire 25 al ciorno di quadagno, impazie e disse: «Di la spagnola non tenco paura».

(…) E poi, gli altri giorni, io doveva stare dentra come uno recercato, per non mi fare vedire dai carabiniere che era inciro. Ma li ulteme 3 ciorne mi ha vestuto di coraggio e, caminanto, queste ultime 3 ciorne, mi sono acorto che a Chiaramonte con la spagnola ni morevino più di 20 al ciorno: li carrecavino con li carrette, e poi la cascia ci la facevino con 4 pezzi di tavola qualunquie, bastiche li portavino al cimetero. Perché li muorte nelli famiglie, come morevino, subito li quardie stavino pronte, e li carabiniere ci li facevino portare subito al cimitero, perché con la puzza facevino morire a quelle vive. E quelle che non avevino parente ci le portava il comune, a spese del comune. E poi il comune ci sventeva quello che il morto lasciava, e così il comune si pagava con la propietà che il morto aveva. Poi, a Chiaramonte, c’ereno 40 pricioniere austrieche, che li tenevino per fare pulizia nelle strade del paese, e magare vurrecavino muorte.

Come cane arrabiate


L’assalto del 28 ottobre 1918. (pp.112-113)

E diedro di noi c’eri un battaglione di carabiniere con li mitre belle pontante che stavino atento: che se qualcuno di noi si avesse refiutato di avanzare, queste avevino l’ordene di spararene.
E così partiemmo, che paremmo uscite del manicomio, perché erimo deventate tutte pazze. E così, arrevammo alla prima linia austrieca, che allinea d’aria c’erino 25 metri. E se avemmo ammisorare la destanza, che prima dovemmo fare la discesa e poi passare il fiume e fare la salita, c’erino più di 200 metre di corsa, avante che arrevammo ner fiume, con quello terreno bagnato e pietre e tanto filo spenato e tante trapole che c’erono messe vorrecate. D’ognuno di noi aveva cascato 20 volte, di quelle che ancora erimo vive.
Poi, stavamo con la paura, ché li austriece ci attaccavano con bompe ammano e fuoco di mitragliatrice, che d’ogni 5 di noi ni moreri 3. E quinte, quanto passammo il fiume, che poi veneva la salita, a li austriece ci veniva commito a butare bompe, e magare rozelavino crosse pietre. Quinte, per forzza, tutte dobiammo morire.
E finarmente, doppo tante soldate morte, che erino tutte morte e ferite nel fiume, abiammo conquistato la posezione. E così, tutte li bompe che avemmo nel tascapane, tutte ci l’abiammo scarrecato dentra la triceia. Che forino molto forbe, che prima che revammo noie, si ne sono scapate, queste cechine! Perché noi, quelle che per fortuna ancora erimo vive, arrevammo nella sua posizione con la scuma nella bocca come cane arrabiate. E tutte quelle che trovammo l’abiammo scannate come li agnelle nella festa di Pascua e come li maiala. Perché in quello momento descraziato non erimo cristiane, ma erimo deventate tante macillaie, tante boia, e io stesso diceva: «Ma come maie Vincenzo Rabito può essere diventato così carnifece in quella matenata del 28 ottobre?» Che io, durante tutta la querra che aveva fatto, quanto vedeva a qualche poviro cechino ferito, se ci poteva dare aiuto, ci lo dava. Ma in questa matina del 28 ottobre era deventato un vero cane vasto, che non conosci il padrone, che fu propia in queste sanquinose ciorne che mi hanno proposto una midaglia a valore miletare…

Testi tratti da Antologia di Terra Matta