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L'incontro con Carmelo Campanella

di Chiara Ottaviano

Carmelo Campanella è nato a Ragusa nel 1931 e ha vissuto fino a pochi anni fa in campagna allevando bovini. In tarda età, era il 2000, ha scoperto di essere custode di un “patrimonio” di valore. Era l’anno del Giubileo, e con altri pellegrini era diretto in autobus a Roma, la prima gita della sua vita, così afferma, anche se in verità era già stato in viaggio dai parenti negli Stati Uniti. Sul pullman, per intrattenere la comitiva, qualcuno si era impossessato del microfono e aveva cominciato a recitare con incertezza qualche strofa in dialetto di non so più quale storia di santo, ricevendone grande apprezzamento. A quel punto il sig. Campanella, superando la timidezza, ha pensato di offrire all’auditorio un piccolo saggio della sua straordinaria memoria e del suo (vastissimo) repertorio di storie e di “cunti”, di canzoni e di preghiere, di motti di spirito e indovinelli, quasi tutto in versi e in dialetto siciliano, ma non solo. E’ stata l’ammirazione suscitata in quel gruppo di sconosciuti, così racconta, a renderlo improvvisamente consapevole del “tesoro” posseduto. Da qui la determinazione nell’intraprendere la sua avventura culturale, ovvero la trascrizione di tutto ciò che aveva impresso nella memoria a cui attribuiva rilevanza e valore, ritenendo che quel tesoro dovesse essere salvato per le generazioni successive alla sua e quindi condiviso. La scrittura era il mezzo.  
L’entusiasmo può a volte essere contagioso. Gianni Guastella, ordinario di Lingua e Letteratura latina all'Università di Siena, che da classicista è da sempre interessato al rapporto fra oralità e scrittura, ha voluto incontrarlo e non ha esitato ad accogliere l’invito a scrivere per l’Archivio degli Iblei proprio a partire dall’ “impresa scrittoria” di Campanella, “etnografo di se stesso e del proprio mondo”. Il suo è un breve ma acutissimo saggio di grande stimolo sia per la riflessione sulle tante forme di trasmissione della memoria, che non escludono internet, sia per il riconoscimento del “mondo poetico straordinariamente variegato” del nostro Campanella. Anche Andrea Nicita, che mi ha accompagnato in tutti gli incontri permettendo così una documentazione audiovisiva, fresco di seri studi in filosofia ed estetica, ha voluto dare il suo prezioso e originale contributo a partire dalla centralità del tema del “linguaggio” presente negli scritti e nelle dichiarazioni di Campanella. Particolarmente acuta è la sua lettura del passaggio “dall’oralità a internet”.
Infatti il sig. Campanella oltre che un frequentatore della biblioteca pubblica è anche un appassionato navigatore in internet.

La prima volta che sono andata a trovarlo
La prima volta che sono andata a trovarlo ero animata da un sentimento di profondo rispetto per l’anziano contadino, che con la sua quinta elementare aveva avuto il coraggio di misurarsi con “l’impresa scrittoria”, ma nutrivo anche una certa diffidenza per quel testo da lui firmato ricevuto via posta elettronica tramite Elisa, la figlia laureata nella facoltà di Lingue. Chi aveva scritto al computer con così tanta sicurezza, passando dal dialetto a un italiano fin troppo forbito? “Io, perché?” mi ha risposto il sig. Campanella. “Lei sa usare il computer?”, ho insistito con manifesta incredulità. “Certo! E’ più facile della macchina da scrivere!”. “Perché lei ha una macchina da scrivere?” “Sicuro! L’ho comprata a rate. L’ho lasciata in campagna”. E in campagna, ha aggiunto ridendo, c’è ancora il “papiro” che mia moglie voleva bruciare nella stufa.
Che cosa fosse il “papiro” lo avremmo scoperto da lì a poco. Nella rimessa della casa in campagna, in fondo a un vecchio baule, arrotolati e legati con lo spago, sono comparse le prime “pagine” scritte a mano: lunghe strisce di carta ricavate dai sacchi vuoti del mangime. Avere fra le mani il “papiro” è stato come toccare materialmente qualcosa che assumeva simbolicamente il senso del passaggio dall’oralità alla scrittura.

L’orgoglio e la consapevolezza di essere custodi e mediatore di un “tesoro”
Campanella è orgogliosamente e consapevolmente custode e mediatore di un “tesoro”. Lo scrive egli stesso nella pagina di presentazione della sua raccolta intitolata Accussì, che si conclude con un “A nomu ri Diu! Forza, valìa e bona uluntà!”, l’invocazione dei mietitori prima di cominciare il lavoro della giornata. Il mondo a cui Campanella rivendica la sua appartenenza, anche se adesso vive in una bella casa di città e ha i figli laureati, continua ad essere il mondo dei contadini e della campagna. In cosa consista poi quel “tesoro” viene così spiegato: “L’idea di fare una raccolta in dialetto mi è venuta quando, pensando a tutte le storielle, le canzoni e le preghiere che ho imparato negli anni della mia infanzia e giovinezza, mi sono chiesto perché avrei dovuto far scomparire con me tutto questo ‘tesoro’”.

La “cultura popolare” come un fiume dai tanti affluenti
Campanella, come ben mette in rilievo Andrea Nicita, e come lui stesso afferma nelle pagine intitolate Le mie memorie scritte dopo il nostro incontro, non si è mai posto il problema di chi abbia scritto quelle storie né quando: “Veramente a questo non ho mai pensato avendole avute trasmesse per via orale non pensavo che qualcuno le avesse mai scritte”. Il suo, come bene fa emergere Gianni Guastella, è un variegato mondo poetico. Scrive infatti di seguito: “Ma poi sono certo che il cuore innamorato di ognuno di noi sia capace di comporre queste poesie”.
Per me invece, addestrata ad attribuire un ruolo significativo all’autorialità, rintracciare le molte e (per me) imprevedibili origini dei testi memorizzati e trascritti da Campanella, o anche solo fare delle ipotesi sulla loro provenienza, è stato un esercizio quanto mai eccitante anche se ancora solo agli inizi. Il “tesoro” di Campanella più che una “miniera” di antiche tradizioni (dove magari la vena più preziosa è quella più profonda) trasmesse da padre in figlio, in un’ininterrotta teoria la cui origine si disperde nel solco del tempo, è un ricco repertorio di cultura popolare ben circoscritto nel tempo e nello spazio e per questo più produttivamente indagabile: offre tracce e suggerisce indagini sui contenuti e sulle forme dei “consumi culturali” di cui si è nutrita una comunità contadina periferica, quale quella ragusana, fra gli anni trenta e gli anni sessanta/settanta del secolo scorso. La metafora che mi viene in mente non è per questo quella di una miniera ma piuttosto quella di un fiume, che nel corso del suo procedere a volte impetuoso raccoglie acque di affluenti diversi (provenienti da valli lontane come dalla profondità del sottosuolo) trascinando con sé tutto quello che incontra. L’alto e il basso, l’antico e il moderno, anzi il modernissimo, si assommano e confondono sotto la patina unificante del dialetto. Di seguito qualche esempio.

Il Catechismo in dialetto e le storie di Santa Genoveffa e Santa Rosalia
Rubricato sotto la voce I cosi ‘i Diu (insieme a preghiere, traduzioni letterali in dialetto dai testi canonici, e scongiuri e formule propiziatorie varie) vi è anche Il catechismo di mio padre in forma di dialogo. Una delle domande finali è la seguente:
“D:Ci su carceri sutta terra?
R: Sissignuri, ci su carceri sutta terra.
D: E quantu sunu?
R: Ci ni sunu quattru.
D: E quali su ?
R: A prima è chida re Patri Santi ca prima era cina e ora è vacanti. A secunna è u Limmu unni ci vanu i picciridi ca muorunu senza battisimu. U terzu è u Priatoriu ca si ci sta fina ca s’acquitunu i piccati e a quarta è chida ro ‘nFiernu ca si ci stapi pi sempri. In eternu ‘nPararisu e o ‘nFiernu si ci stapi pi sempri in eternu e o Priatoriu fina ca s’acquitunu i piccati.”

Anch’io a suo tempo ho studiato il catechismo, ma questa storia dei “quattro carceri”, e in particolare di quello dei “Padri Santi” che prima era pieno e adesso è vuoto, mi risultava del tutto nuova. In effetti, secondo il dettato del catechismo tridentino, accanto all’inferno e al purgatorio c’era anche il limbo dei Santi Padri, assunti in cielo dopo la discesa di Cristo agli inferi nei tre giorni che precedettero la sua Resurrezione, oltre (sia pure in forma più dubitativa) il limbo dei bambini non battezzati. A quelle verità di fede si rifacevano i catechismi in dialetto siciliano, semplificati e in forma di Compendio da imparare a memoria, che cominciarono a essere stampati a partire dalla seconda metà del Seicento per essere ancora largamente in uso per tutto l’Ottocento. Il Compendio della dottrina cristiana ricavato dal Catechismo Romano e disposto in lingua siciliana per la diocesi di Catania, voluto dal vescovo di Catania Mons. Ventimiglia e pubblicato nel 1768, fu forse il più diffuso. Prima del compendio di Ventimiglia (che dal siciliano fu tradotto in italiano nel 1863) erano stati pubblicati il Compendio di Mons. Gabriello Di Blasi, Messina 1764, il Breve Compendio della Dottrina Cristiana di Monsignor D. Serafino Filgeri Arcivescovo di Palermo, nel 1668; Elementi della Dottrina Cristiana esposti in lingua siciliana. Ad uso della diocesi di Monreale per ordine di Mons. Francesco Testa, Monreale 1764.

Carmelo Campanella testimonia dunque il fatto che l’evangelizzazione in questa parte della Sicilia ancora all’inizio del Novecento (visto che fa riferimento al Catechismo “del padre”) era praticata dai parroci facendo uso dei testi composti in dialetto due secoli prima nello sforzo di una catechesi che riuscisse a raggiungere il popolo.
A secoli ancora precedenti risale forse l’origine delle appassionanti e avventurose storie di Santa Genoveffa, Santa Filomena e San Giorgio, conosciute a memoria e trascritte da Campanella ma ben presenti nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze (sec. XIII), il libro che fu un vero e proprio bestseller nel tardo medioevo. Scritto in latino, fu tradotto in volgare in diverse lingue, tedesco, francese, ceco, italiano, inglese e pubblicato in migliaia e migliaia di codici manoscritti e poi stampa. A Ragusa le storie dei santi in versi e in dialetto ebbero anche una diffusione popolare attraverso le piccole pubblicazioni della tipografia Criscione, attiva già dal 1888.

Le scenette di Nofrio la storia di Rita e Matteu
Nel variegato repertorio di Campanella non mancano le scenette comiche. Sono quelle di Nofrio, mi ha spiegato Campanella dando per scontato che sapessi esattamente a chi facesse riferimento. Non mi è stato facile venirne a capo. Se, infatti, è noto il personaggio Nofrio delle “vastasate” palermitane, ben poco costui sembrava avere a che fare con le scenette ambientate in America fra gli emigranti italiani. E, infatti, il Nofrio a cui si fa riferimento è l’attore palermitano Giovanni De Rosalia, che calcò la scena dei teatri di New York dove accorrevano gli emigranti siciliani, a partire dal 1907. Personaggio ricorrente delle sue commedie è Nofrio, con un chiaro riferimento al personaggio delle vastasate. Nel DAHR (Discography of American Historical Recorder) sono censiti circa 100 dei 200 dischi di Nofrio, prodotti tra il 1916 e il 1926.

“Sig. Campanella, per caso lei ha mai sentito qualche disco di Nofrio?” gli ho chiesto al telefono per sapere se stavo seguendo una traccia possibile. “Sì che li sentivo” è stata la risposta, “ Erano della mia vicina di casa che li aveva portati dall’America”.

In questo caso, dunque, nel “tesoro” di Campanella non ritroviamo qualcosa di tramandato in famiglia ma piuttosto contenuti di cui era venuto a conoscenza, grazie all’industria discografica e al movimento degli uomini e delle donne tra un continente all’altro.
Qualcosa di non troppo dissimile può dirsi per storie come quella di Rita e Matteu,scritta dal popolarissimo cantastorie Orazio Strano (1904-1981), il più noto della Sicilia orientale, che nel 1955 arrivò a calcare il Piccolo di Milano e a incidere il suo primo 45 giri. (Come si costruisce un cantastorie. La vita di Orazio Strano raccontata dal figlio Leonardo. A cura di Mariella Fiume e Maria Parisi, “Nuove Effemeridi” n°. 11 1990/III ). Probabilmente Carmelo Campanella riuscì a memorizzare l’intera storia non tanto ascoltando i dischi ma grazie alla trascrizione del testo in foglietti che venivano venduti durante lo spettacolo in piazza.

L’ultima impresa: I Paladini di Francia e Internet
“Con un certo orgoglio posso affermare che il mio lavoro non è stato né copiato né raccolto con l’aiuto di altri, ma è rimasto custodito con cura nella mia memoria per quasi tutta la vita. Insieme ad esso, sono vivi dentro di me i ricordi, i visi, i sorrisi, il calore delle persone che mi hanno lasciato questo piccolo 'patrimonio' culturale e che non finirò mai di ringraziare”
Campanella nella Premessa di Accusì, una sorta di “manifesto” dove dichiara metodi, finalità e ispirazione del suo lavoro, afferma orgogliosamente di avere fatto tutto da solo e di non avere copiato. Questo significa non solo che è perfettamente informato sul fatto che esistano altre pubblicazioni con contenuti simili ai suoi ma che deliberatamente ha scelto di non uniformarsi alle versioni a stampa già esistenti. “Perché mai non la devo scrivere per come l’ho imparata io?”, afferma con convinzione. E se dalle sue ricerche riesce a trovare fonti più complete la scelta è di integrare il racconto con qualche riga in corsivo, come nel caso dei lunghi poemi di Santa Genoveffa o di San Giorgio.
Adesso ha in mente di trascrivere quanto ricorda della storia dei Paladini di Francia per come l’ha appresa da suo padre. La ricerca da lui già intrapresa su Internet pare si sia rivelata quanto mai fruttuosa.

La parola
La parola detta, la parola scritta, quella ascoltata. L’opera lirica, la radio, il grammofono. I giornali, i libri a dispensa, i libri dei figli, la biblioteca comunale, internet. Questo è il ricco mondo di Carmelo Campanella, coltivato con passione nell’arco di tutta la vita. Non sembra esserci spazio per il mondo delle immagini, la televisione risulta poco interessante e il cinema utilizza un linguaggio che per qualche verso gli risulta poco chiaro.