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La carcara di Marcella Burderi

"Parra a carcarara..." si dice di colui che parla in modo poco elegante un siciliano di infima estrazione. Forse il termine viene da "carcara" una sorta di forno usato ancora negli anni '60 per ridurre la pietra in calce. Il mestiere del carcararo era ritenuto tra i più umili e, spesso, a lavorare in questi forni erano i bambini. Un interessante contributo in merito all’argomento è stato fornito dall’Associazione Esplora Ambiente con una pubblicazione dal titolo Le carcare storia e funzioni a cura di “Quaderni di Esplora Ambiente”.

Come era costruita una carcara

Nel contributo di Rosario Zaccaria contenuto nel volume si legge: «le “carcare” sono manufatti edilizi, fornaci di forma pressoché circolari, utilizzati nel nostro territorio fino agli anni sessanta dove veniva cotta la pietra per la produzione della calce. La loro ubicazione era strettamente legata al territorio essendo questi forni costruiti in funzione della disponibilità della materia prima che serviva per ottenere la calce dalla trasformazione della pietra calcarea. La pietra che veniva utilizzata era chiamata in siciliano petra ro fortidal colore bianchissimo. La si estraeva cavandola dall’ammasso roccioso e ridotta in ciottoli la si trasportava a dorso di mulo fino alla carcara. Le carcare erano costruite con blocchi di calcare duro grossolanamente squadrati, a volte parte di esse erano incavate direttamente nelle rocce. Per talune di esse le pareti perimetrali interne erano costituite da blocchi lavici». Secondo Guglielmo Calcarello «l’impiego della calce aerea, primo dei leganti in ordine di tempo, risale a epoche remote. In tutto il periodo romano fu prodotta un’ottima calce aerea ricavata dalla cottura di calcari. Grazie alla testimonianza di alcuni carcarari tra cui il signor Orazio Migliore che ha gestito una carcara dal ’45 al ’58 in contrada Cozzo Ferraro, la regola da seguire per la costruzione di una carcara era quella di rispettare la relazione tra altezza della carcara e il suo diametro cioè l’altezza pari 2 volte il diametro».

Il processo di lavorazione

«Dopo l’estrazione dalla cava il calcare passa attraverso due fasi di lavorazione: la cottura e lo spegnimento.  Si ottiene così la calce che per caratteristica è un materiale che impastato si lascia lavorare e plasmare facilmente e poi quando è asciutto è abbastanza resistente all’acqua» (Rosario Zaccaria).

La vita dei carcarari

Secondo Monica Carbone che ha curato delle interviste con i lavoratori della pietra nello sciclitano il lavoro del carcararo era molto faticoso ma il guadagno era soddisfacente. La messa in funzione di una carcara non era legata a una stagione particolare ma la raccolta del combustibile sì: si trattava della pampinata ra carrua  e della pagghia ro lauri. Per il reperimento della pietra potevano volerci dieci o quindici giorni (velocizzato poi col tempo grazie ai primi mezzi di trasporto). Tutta la famiglia era impiegata a lavorare nella carcara: padre e figli nel lavoro più duro, la moglie e le figlie nel cucire i teloni, rituna, che coprivano la calce. La fase di cottura vedeva l’impiego di sei persone e durava circa cinquanta ore consecutive durante le quali si stabilivano turni di due ore in cui due uomini alimentavano il forno e gli altri si riposavano. Il lavoro era delicato in quanto poteva accadere che ci si bruciasse o che si avessero danni alla vista. Il medicamento consisteva in una mistura chiamata uogghiu re rannili. Si trattava di una mistura di olio e grandine e poi conservato al buio per tutto l’anno. Al termine del lavoro un pranzo comune detto scialataconcludeva con un festeggiamento la buona riuscita.