Pane di casa
Tento di fare qualcosa che solo le anziane donne iblee sanno fare. Mi diverte il pensiero di vestirmi come loro. Di usare quegli stessi utensili inventati secoli fa per trasformare in cibo i prodotti del territorio e degli animali dell’altopiano.Chiedo consigli e aiuto alla mia amica contadina.
Avvolgo, come lei, i capelli in un foulard che annodo dietro la nuca e allaccio ai fianchi un grembiule candido. Per prima cosa preparo la pasta per il pane. Verso sulla spianatoia dieci tazze di farina di grano duro, russieddu, filtrandola rigorosamente al crivello. Formo una conca al centro e vi sistemo un bel pezzo di pasta acida, cruscenti, preparata ieri sera con acqua, farina e lievitomadre già fermentato. Spargo sale al volo solamente sulla farina e verso acqua tiepida sul cruscenti per scioglierlo e impastarlo.
La mia amica ha già sistemato su due cavalletti bassi una larga tavola di legno rettangolare, brìula, che presenta a uno dei lati più corti una specie di appendice più stretta a forma di sedile. Fra due tavolette perforate, palummeddi, impiantate poco prima di questa appendice, ha inserito un lungo bastone di legno, briùni, anche’esso perforato e appiattito nella parte più larga come a formare un grande coltello. Attraverso i tre fori ha fatto passare una sorta di chiodo di legno, cavigghiùni.
Colloco l’impasto al centro della brìula e mi sistemo sull’appendice della brìula come su una sella. Con le braccia allungate sull’impasto lo faccio girare lentamente sotto i colpi ritmati del briùni che la mia amica, in piedi, abbassa con forza e rialza in perfetta armonia con i miei gesti.
Troviamo un accordo sincronico senza sforzo. Istintivamente.
Adesso bisogna fare il pane vero e proprio. Taglio a pezzi l’impasto ormai perfettamente scaniato e ne conservo un piccolo pezzo in una ciotola di ceramica segnando croce con la mano. Lo copro con un piattino. Fermenterà e servirà come lievito per il prossimo impasto. Con gli altri pezzi faccio delle forme rotonde leggermente schiacciate che piego a mezzaluna e poi allungo a forma di pesce, mantenendo una certa rotondità. La giuntura, aprendosi durante la cottura, formerà il sorriso del pane: gghiru. Sono in tutto otto forme, che si possono consumare anche nei giorni successivi. Le metto a lievitare fra due canovacci di cotone, ben protette da una copertina di lana. Trenta minuti e saranno pronte per la cottura.
Sotto l’occhio vigile della mia amica passo ad accendere il forno a pietra. Seguo l’iter tradizionale, prima bruciando fasci di rami secchi di ulivo e bucce di mandorle, poi girando la brace dall’una e dall’altra parte. Finché la volta di mattoni non si fa tutta bianca. È il momento di battere con la mano uno solo dei pani per accertarmi, tramite il suono, dell’avvenuta lievitazione. Tiro la brace e la sistemo dentro un’antica vasca di ferro, spruzzandovi sopra l’acqua per spegnerla. Uso l’arnese apposito, pala, per mettere i pani in forno. Mezzora piena di cottura sarà sufficiente.
Una volta sfornati, ne condisco uno, mentre è ancora caldissimo. Lo taglio a metà con un coltello affilato. E solo da una parte produco profondi tagli in lungo e in largo, affinché assorba bene i condimenti: un pizzico sale al volo, origano fresco di Monterosso Almo e peperoncino sbriciolati all’istante, due cucchiaini di capuliatu, il pomodoro seccato al sole estivo e tritato finissimo; scaglie di ragusano stagionato e olio d’oliva Monti Iblei, spremuto a freddo. Poi richiudo il pani cunzatu e faccio pressione con entrambe le mani per far assorbire al meglio il condimento.