Presentazione
È nato tutto per caso. Una serata noiosa. Una stanchezza di pensieri. Sai quando ti pesa persino alzarti dalla tua poltrona preferita e andare in cucina a prenderti un bicchiere d’acqua? Ecco. Io stavo così quel giorno. E fu allora che mi riempì gli occhi una grossa zuppiera bianca di porcellana, in bella vista sulla credenza. Regalo di alcune amiche per l’ultimo Natale. Quasi un tacito invito a dedicarmi ai fornelli.
Cuoca io? Che follia! Io che avrei allevato i figli a bistecche e insalata se non avessi avuto un valido aiuto da una perfetta massaia sia in cucina che nel resto della casa. Io che accettavo senza riserve - e qualche volta suggerivo - ogni invito a cena in casa di amici o in trattoria. Io che non avrei mai anteposto ai miei studi e alla carriera il culto del cibo. E invece! D’improvviso, complice la panciuta zuppiera, mi trovai catapultata in un mondo di odori, sapori, rumori di pentole e di padelle, di crepitii di legni e di lingue di fuoco del vecchio forno a pietra. Nella cucina della casa dove sono nata. Col suo colore grigio ardesia della volta a botte e il tavolo di marmo candido, dove gli impasti di farina, uova, verdure si trasformavano magicamente in pane, focacce, biscotti….
Che emozione! Un inspiegabile entusiasmo già mi possedeva. E anche una voglia di misurarmi con qualcosa di nuovo. Di rimettermi in gioco e verificare sul campo le mie capacità in un territorio mai visitato prima.
Cominciai lentamente a riannodare i ricordi, tenendo presenti le figure delle donne della mia infanzia. Capaci di governare la casa e curare gli interessi della famiglia con l’uso parsimonioso delle risorse naturali. Senza buttare via niente prima di averlo utilizzato e riutilizzato. A partire dal pane raffermo che diventava muddica o della scorza del formaggio stagionato destinata a insaporire le minestre e le carni bollite o del residuo dell’olio d’oliva che serviva per fare il sapone.
Ripensai anche ai loro gesti quotidiani, che conoscevo a memoria fin da bambina, ai tempi e ai modi della preparazione delle pietanze. Della cottura e dell’assaggio. Ricordavo che alcuni cibi, per rendere al massimo il loro sapore, andavano mangiati caldissimi e altri tiepidi. E che alcune pietanze esigevano un tempo di riposo prima di essere gustate, mentre altre erano più saporite appena cotte. Ogni menu completo, dal primo al dessert, aveva una sua ragione d’essere, un accordo invisibile di spezie e sapori, di elementi vegetali e di elementi animali. Un perfetto equilibrio fra l’esigenza del nutrimento e la soddisfazione del gusto.
E poi la tavola! Sempre imbandita con un arredo diverso, secondo le occasioni. Con tovaglie di lino o di cotone, piatti di porcellana o di ceramica. Con le belle posate d’argento e i bicchieri di cristallo delle feste.
Scoprivo man mano che tutti i piatti della tradizione iblea erano legati, per larga parte, ad avvenimenti religiosi, alle celebrazioni del santo patrono o alle ricorrenze canoniche della Pasqua e del Natale. E soprattutto ai tempi di maturazione dei prodotti. I mandarini si mangiavano solo d’inverno e i pomodori d’estate. I piselli in primavera e l’uva in autunno.
Anche i cicli biologici degli animali erano fortemente condizionati dalle stagioni. Così che il latte destinato alla ricotta e al formaggio era più buono solo in alcuni mesi dell’anno, quando c’era più freddo e l’erba dei campi era più verde.
Tutti i menu tipici della cucina iblea si basavano dunque su prodotti di stagione. E le pietanze avevano quel gusto unico e ormai perduto dei frutti e delle verdure dell’orto, delle uova fresche di galline allevate a terra, della buona carne degli animali a pascolo libero.
Il mio primo contatto, consapevole, con i fornelli avvenne d’inverno. Una sera di gennaio. E fu la volta che consumai ogni energia del corpo e della mente, avendo scelto il menu più tradizionale e difficile da realizzare: il brodo di gallina con le palline di manzo e i tagliolini all’uovo; insalata e patatine fritte; crema al cioccolato.
Fare qualcosa con le mani, tuttavia, toccare i prodotti e farli diventare cibo, sentirne gli odori durante la cottura, mangiarli, mi diede un piacere così grande da farmi dimenticare la fatica. Una spinta a proseguire l’esperienza.
Così, giorno dopo giorno, continuai a richiamare alla mente le abitudini alimentari della mia famiglia, che rispecchiavano quelle più generali della gente dell’altopiano. E, quando i ricordi erano troppo lacunosi, andavo su in campagna a chiedere aiuto e consulenza a una mia vecchia amica contadina. Prendevo scrupolosamente nota delle varie pietanze e della loro collocazione nei menu, adattandole però al mio gusto e tenendo conto dei ritmi della mia esistenza quotidiana. Ritmi che non erano e non potevano essere più quelli delle antiche massaie dell’altopiano. Le nuove abitudini e le esigenze della società occidentale post moderna condizionavano ormai vistosamente anche la vita di molte donne iblee. Me compresa. Tutto di fretta. Efficienza e velocità. In ogni settore. Il pranzo classico che vedeva la famiglia riunita ogni mezzogiorno attorno a un tavolo non esisteva più. Sostituito spesso con un panino al volo o un tramezzino al bar. E riproposto sporadicamente solo in occasione di feste comandate e solo in casa dei nonni.
I tempi da dedicare alla cucina erano drasticamente ridotti alle ore del secondo pomeriggio. Alla preparazione della cena. Da qui la mia decisione di trasformare i pasti meridiani in pasti serali. In cene. Mi muovevo all’inizio come su un terreno accidentato e andavo avanti lentamente. Per prove ed errori. Il progressivo affinamento del gusto e soprattutto il piacere che mi dava la “costruzione” di una cena mi spinsero a fissare le mie ricette in un diario stagionale. Senza alcuna pretesa enciclopedica. Quasi un diario d’amore con dedica alla mia famiglia e alla città di Modica dove sono nata. Una personale testimonianza del valore di mille e mille mani sapienti che nel corso dei secoli hanno creato in terra iblea cibi perfetti negli impasti e nelle dosi. Nelle spezie da usare per le carni e i pesci. Nell’intreccio degli ortaggi e nel condimento dei legumi. Negli aromi indefinibili dei dolci…