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La bella Cermania

Nelle miniere di carbone, Duisburg 1942.  (pp.252-263)

Siamo arrivati a Duisburg di notte e abiammo passato il primo spavento, che hanno sonato li allarme e li amirecane hanno cominciato a butare bumme. Lì era zona renana, ed erano tutte miniere di carbone. E quinte, presimo li prime spavente e forino li prime paure. Io, di queste, ni aveva visto tante, ma bombe come quelle niente. E io, tra me, disse: «Che lo sa se si tornna, di questo passo?»
C’era mio fratello Paolo che ancora querra non ni aveva visto ed era la prima volta che cirava, e mi disse: – Tu ci curppe affaremi venire qui, a mienzo questo caso del diavolo! – E l’aparecchie mirecane sparavino. E io, a mio fratello, ci faceva coraggio, mentre io tremava, perché sapeva che cosa voldire querra.
Entrammo in città, mentre si fece ciornno. E ni hanno detto che erimo propia nel crante fiume Reno, dove c’erino le crante industre della Cermania, che si chiamava «terra renana», e ni decevino che c’era vicino pure Disidofe, Meiorse, e questo fiume era navecabile. E tutte queste crante intustre erino pociateal Reno. Poi, c’erino li Chilubbe, dove tutte li cannone li facevino propia lì. E così restiammo lì, li 150 raqusane o 100 che erimo, non recorddo preciso, e umpoco di palermitane.
All’indomane ci sistemammo a Renausen, lì l’interpite ni aveva assegnato il locale dove dovemmo antare allavorare, che c’era da fare una contotura di acqua putabole, che amme questo lavoro non mi era dificele e mi piaceva tantu. Così, mi ha detto: – Prentete 10 operaie e fate questo lavoro.
Io, così, mi prese 10 operaie che avevino venuto di Chiaramonte anziemme comme: e uno era Paolo il mio fratello.
E così, io faceva il capo scuadra. Ma, doppo 12 ciornne, non mi l’hanno fatto fare più, perché io non sapeva parlare tedesco. E secome, uno oggi e uno domane, di queste chiaramontane, li mantavino allavorare a altre parte, e magare imminiera, che ci mancava il personale; e così, restai io solo e Paolo.
(…)
Così, venni un operaio che era di Vittoria e sapeva sonare pure, ma non tanto buono come Paolo e Antonio. Il vittorise sapeva sonare come sapeva sonari io. E così, io e il vittorise ci hanno dato una chitarra e un altro mandolino, e così, immienzo a quelle buone, sonammo magare noi.
E così, tutte le sere ci adivertiammo e faciammo devertire. E così, tutte ci ofrievino birra e tante altre bevante. Così, il tempo antava meglio per noi, che li schiave non li faciammo più e con quello sonare ci portavino tanto respetto.
Ma poi abiammo cominciato a bestimiare, che ci siammo acolte che sopra di noi ci avemmo una maletia che non ni potiemmo fare persovase che cosa era. Solo che tutte le nostre carne erino stampe stampesenza sapere che cosa fosse: chi diceva che veneva della sporchizia del carbone, che diceva che veneva del freddo che faceva e che diceva che veneva dai spavente che vediammo quanto c’erino l’alarme che venieno l’amirecane a bombardare…
Così, cominciammo ad antare nel dottore, e quello, che era spicialista, sempre ni diceva che deveneva del carbone e ci dava pomata, ma sempre erano le stesse. E il medico ni ha detto: – Quella malatia non è niente, non vi priocupate, che poi, come campiate aria, vi passa –. E dava pomata…
(…)
Intanto la malatia che io aveva antava a peccio. E così, il dottore mi ha detto: – Questa malatia si chiama «malatia di pelle» e ene stata presa per causa di lavorare nel carbone, e ora, per antarasinni, ci vorrebbe la cura di sapere manciare.Vialtre italiane, bevete vino e salato manciate, e quinte non ve passa.
E così, io disse: «Se ni portammo questo solo recalo è niente, di questa bella Cermania!» Che la querra più tempo passava più furiosa si faceva.